Le nuove sfide dell’internal governance e del risk management: anche il factoring può dire la sua
Tanti i temi trattati durante l’Assemblea annuale di Assifact, che ha anche festeggiato i 35 anni dalla sua fondazione. Tra questi, quello dei controlli e delle regole e del loro rapporto con la governance si riallaccia al recente intervento di Andrea Enria, Presidente del Consiglio di vigilanza della BCE, a Washington
In occasione dell’annuale conferenza sulle “Policy challenges for the financial sector”, organizzata a Washington all’inizio di giugno di quest’anno dalla Banca Mondiale, dal Fondo monetario internazionale e dalla FED, Andrea Enria, Presidente del Consiglio di vigilanza della BCE, ha affermato che le autorità di vigilanza non hanno una lungimiranza assoluta e non si può pretendere che esse identifichino tutti i pericoli e i rischi che ogni banca deve fronteggiare. Sono le banche che hanno la responsabilità di gestire i rischi e ciò può avvenire in modo efficace se ci sono una governance solida e una sana cultura del rischio.
Secondo Enria, occorre abbandonare l’idea di disegnare regole sempre più precise che siano in grado di catturare ogni rischio possibile in ogni circostanza immaginabile, con la prospettiva non auspicabile di aumentare a dismisura la complessità e le pressioni sul capitale, magari, sottolinea sempre Enria, con vantaggi non sempre giustificati per banche in grado di governare modelli di analisi molto sofisticati e in qualche caso azzardati.
Anche la BCE sembra quindi oggi prendere atto che capitale e compliance non bastano per assicurare la stabilità del sistema finanziario e che occorre invece dare più enfasi, anche simbolicamente, ad altre parole chiave quali internal governance e risk management.
Nel caso di alcune banche regionali statunitensi nelle crisi ha svolto un ruolo determinante una governance aziendale inadeguata. Il caso di queste banche e la responsabilità della governance sono stati ricordati anche dal Governatore Visco nelle Considerazioni finali del 31 maggio di quest’anno. Nel caso della Silicon Valley Bank, solamente uno dei consiglieri indipendenti aveva una significativa esperienza bancaria e comunque non sedeva nel comitato rischi della banca, nel quale c’era invece un esperto in vini d’annata.
Anche nella Signature bank, che è nota anche per avere dato a suo tempo un posto in cda a Ivana Trump, il comitato rischi era a corto di banchieri, fatta eccezione per i fondatori della banca e per il chief operating officer. Il CRO della Silvergate Bank, la banca specializzata nelle criptovalute, era il genero del CEO, certo non un esempio, almeno sulla carta, di indipendenza di giudizio.
In attesa che tali riflessioni, che costituiscono certamente un punto di svolta negli atteggiamenti della BCE, trovino riscontro nei comportamenti concreti dei supervisori, che cosa si può trarre per il mondo del factoring, alla luce anche dei temi trattati nell’ultima nostra assemblea annuale?
Vale la pena di precisare subito che i soggetti impegnati nello svolgimento dell’attività di factoring, e in particolare gli intermediari specializzati, presentano una qualità degli attivi e una capitalizzazione adeguate, modelli di business in genere sostenibili, in virtù anche di modalità di formazione del margine di intermediazione e di livelli di cost income adeguati. Parliamo inoltre di soggetti sottoposti, almeno nel nostro paese, ad un approccio di regolamentazione & supervisione, analogo a quello delle banche, rispetto al quale i livelli di compliance degli opoeratori sono molto elevati.
Ma è importante anche sottolineare che sicuramente l’industria del factoring possiede una cultura del rischio robusta e consolidata nel tempo, che coniuga tutte le determinanti del rischio nelle operazioni di factoring, comprendendo una vista ampia su tutti i soggetti coinvolti e non solo sull’affidato principale, un’attenzione alla correlazione tra i diversi rischi che incidono sulla capacità (e volontà) di rimborso (si pensi al rischio di dilution, ad esempio, ed ai rischi connessi alla eventuale inadeguatezza delle condizioni contrattuali che regolano le forniture di beni e servizi che originano i crediti commerciali), un mix invidiabile tra logiche asset-based e focus sui flussi di cassa.
Le tre C (capitale, compliance, cultura) sono dunque state fino ad oggi un punto di forza del settore del factoring, nel quale infatti le situazioni problematiche degli operatori di cui si è avuta notizia sono davvero casi rari e il livello dei crediti deteriorati decisamente non allarmante.
E per il futuro? Tra le sfide che il factoring si propone di affrontare in futuro vi sono una maggiore apertura al mondo delle piccole e medie imprese, che manifestano una domanda di assistenza per la gestione del capitale circolante, anche attraverso il factoring, tuttora inespressa; il focus sul ruolo dei fornitori nei percorsi di supply chain finance; il supporto alle operazioni della clientela attuale e potenziale nei suoi rapporti con la PA (si pensi anche all’attuazione del PNRR). Non vi è dubbio che affrontare queste sfide significa per i factor anche dover rivedere, se necessario, gli assetti di internal governance e di risk management.
In questa prospettiva anche i controlli possono essere di aiuto (in passato sono stati certamente gravosi ma contemporaneamente uno stimolo formidabile a introdurre innovazioni gestionali e organizzative anche nel factoring), specie se si terrà conto di quanto affermato da Enria nel suo speech a Washington: non bisogna confondere “equal treatment” con “the same treatment regardless of the circumstances”, così che effettivamente “differences in banks’ individual situations justify differences in supervisory treatment.