La revocatoria fallimentare del pagamento del terzo
Nell’attività di recupero del credito non è raro che il debitore, in stato di crisi o a corto di liquidità, avanzi al creditore delle proposte le quali prevedono che il pagamento del debito venga effettuato da un terzo che, al contrario, disponga delle risorse necessarie (solitamente si tratta di società collegate o controllate del debitore oppure dell’amministratore stesso della società debitrice)
In questa situazione, troppo spesso il creditore ritiene che il pagamento del terzo, per il semplice fatto di provenire da un soggetto diverso dal debitore, non possa venire revocato a seguito del fallimento di quest’ultimo (rectius: oggi, liquidazione giudiziale).
In effetti, se è vero che l’azione revocatoria ordinaria, anch’essa esperibile dal Curatore ai sensi dell’art. 165 del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (Decreto Legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, “CCII”), ha ad oggetto esclusivamente “gli atti compiuti dal debitore”, non si può dire lo stesso per l’azione revocatoria fallimentare disciplinata dal successivo art. 166 CCII.
La norma in esame ha mantenuto sostanzialmente invariato il contenuto dell’abrogato art. 67 Legge Fallimentare, fatta eccezione per l’importante novità che fa decorrere a ritroso il “periodo sospetto” dal momento del deposito dell’istanza per l’apertura della liquidazione giudiziale e non più dalla data della dichiarazione di insolvenza.
Essa prevede che il Curatore possa revocare (ossia: ottenere una pronuncia che ne dichiari l’inefficacia) gli atti e i negozi giuridici ivi indicati, i quali, secondo la dottrina maggioritaria, sono accumunati dal fatto di essere tutti effettuati in violazione della cd. par condicio creditorum, principio in base al quale, nell’imminenza della liquidazione giudiziale, un creditore non può essere pagato in via preferenziale, ma deve concorrere proporzionalmente con tutti gli altri secondo i rispettivi privilegi.
Se così è, si capisce come la revocatoria fallimentare possa avere ad oggetto non solo pagamenti effettuati dal debitore, ma anche quelli posti in essere dai terzi, i quali, a determinate condizioni che presuppongono una interazione col patrimonio del fallito, possono comportare una lesione della par condicio.
Venendo al punto, innanzitutto può accadere che il terzo paghi il debito utilizzando denaro del fallito: in questo caso l’atto è senz’altro revocabile e ciò, si badi bene, anche a prescindere dal fatto che al momento del pagamento il creditore ritenesse in buona fede che il denaro provenisse dal terzo, giacché l’atto viene a incidere direttamente sul patrimonio del fallito in violazione della regola della par condicio, la quale non subisce limitazioni o eccezioni per gli stati soggettivi di buona fede diversi da quelli attinenti alla situazione di insolvenza del debitore (Cass. Civ. 15691/2011).
Qualora invece il terzo utilizzi denaro proprio, bisogna distinguere.
Se il terzo si è “utilmente rivalso” nei confronti del debitore prima dell’apertura della liquidazione giudiziale, il pagamento sarà revocabile (e quindi il creditore, quale accipiens, dovrà restituire il denaro alla procedura), dal momento che in questo caso, per effetto della rivalsa, il patrimonio del fallito ha subito un depauperamento in danno alla massa a e favore di un solo creditore (cfr. ex multis Cass. Civ. 142/2003).
Se invece il terzo non ha recuperato dal debitore alcuna somma a titolo di rivalsa prima della dichiarazione di insolvenza, il pagamento che egli abbia effettuato a favore del creditore del fallito non è revocabile, dal momento che, in assenza di rivalsa, detto pagamento assume veste di atto del tutto “neutro” rispetto agli altri creditori, non comportando né una riduzione dell’attivo né un incremento del passivo (il quale, anche in caso di esercizio della rivalsa in sede di accertamento dello stato passivo, sarà tuttalpiù pari all’ammontare che esso avrebbe comunque avuto per effetto dell’insinuazione del creditore): ne deriva che in questi casi il pagamento del terzo è inidoneo ad incidere sulla par condicio (Cass. Civ. 570/1999).
Si ritiene inoltre che sia revocabile anche il pagamento da parte del terzo qualora quest’ultimo, pur non esercitando la rivalsa, sia debitore del fallito ed abbia eseguito il pagamento “con denaro a questi dovuto” in esecuzione di una delegazione, valendo il suo pagamento ad estinguere entrambi i debiti (quello del fallito verso il creditore e quello del terzo verso il fallito): anche in questo caso, infatti, il creditore viene pagato in via preferenziale con denaro che sarebbe spettato alla massa (Cass. Civ. 25928/2015).
E’ bene poi precisare che se il terzo procede al pagamento a favore del creditore intermediario finanziario nella sua particolare qualità di garante del debitore fallito, con denaro proprio e senza rivalsa, il suo pagamento non è soggetto a revocatoria neppure se egli abbia pagato mediante rimessa sul conto corrente dell’imprenditore fallito, giacché in tal caso la rimessa va intesa come pagamento destinato al creditore/intermediario, non diversamente da quello che sarebbe stato un pagamento diretto a sue mani e purché si dimostri che il fideiussore non intendesse con la rimessa porre le somme nella disponibilità giuridica e materiale del debitore (Cass. Civ. SS.UU 16874/2005).
In conclusione, risulta consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il pagamento del debito del fallito da parte di un terzo può essere revocato qualora abbia comportato una lesione della par condicio creditorum, ossia quando il terzo abbia eseguito il pagamento avvalendosi, direttamente o indirettamente, del denaro del fallito, ovvero quando, prima del fallimento, il terzo abbia utilmente effettuato la rivalsa.
È opportuno quindi che i creditori tengano in considerazione tali circostanze nel momento in cui si accingano a concludere accordi di tale tipo, cautelandosi in maniera adeguata rispetto ai rischi sopra evidenziati.