La diversità di genere nelle imprese italiane: al di là di alcuni miti

Tra tutte le categorie della diversità, quella delle donne cisgender è quella più trattata dal discorso pubblico e dalle imprese. Quando un tema diventa “popolare” e si istituzionalizza rischia di perdere, però, la sua componente critica, alcuni aspetti si trasformano in miti e si smarriscono i risvolti pratici. L’Osservatorio DIS – Diversity, Inclusion and Smart working di SDA Bocconi[1], ha curato questo contributo, nel quale facciamo alcuni esempi che riguardano tre temi centrali relativi alla gestione della diversità di genere nel mercato del lavoro e nelle imprese: la segregazione orizzontale, la segregazione verticale e la genitorialità

La segregazione orizzontale è il fenomeno in base al quale uomini e donne sono impiegati prevalentemente in specifici settori, occupazioni, professioni e mestieri. La segregazione orizzontale dà luogo a professioni “tipicamente” femminili e professioni “tipicamente” maschili. Le cause della segregazione orizzontale sono individuali (le preferenze degli individui), sociali (come le norme sociali condizionano le preferenze individuali), economiche (per esempio, segregare consente di calmierare la competizione e, quindi, tenere bassi i salari) ed organizzative (di seguito si illustrerà in che modo). Tutte queste cause si influenzano a vicenda. Le cause economiche ed organizzative sono di responsabilità delle imprese. Nel processo di costruzione di una professione, infatti, giocano un ruolo anche le imprese. Le imprese concorrono a definire sia le caratteristiche delle mansioni e dei ruoli/posizioni sia le caratteristiche degli individui che devono o possono svolgere tali mansioni e ricoprire i ruoli e le posizioni. Inoltre, le professioni si agiscono nelle imprese e l’attività di comunicazione delle imprese (per esempio, il linguaggio utilizzato negli annunci di lavoro) plasma il discorso intorno alle professioni. In un ottica di “vero” equilibrio di genere, dove quindi l’azione non è rivolta solo al genere femminile come usualmente avviene, bisognerebbe “femminilizzare” le professioni maschili e “maschilizzare” le professioni femminili. Per esempio, in ottica di “femminilizzazione”, bisognerebbe aumentare il numero di donne muratrici, vista la carenza di manodopera nel settore edilizio in cui le donne sono solo il 6% della forza lavoro (salgono al 18% quando consideriamo le posizioni dirigenziali). In ottica di “maschilizzazione”, bisognerebbe aumentare il numero di uomini insegnanti visto che gli uomini sono solo il 17% della forza lavoro complessiva (la percentuale di uomini scende all’1% nelle scuole dell’infanzia e al 4% nelle scuole primarie).

Seguendo questo discorso, bisognerebbe smontare la retorica celebrativa di quelle imprese in cui la forza lavoro è a maggioranza femminile o esclusivamente femminile. Qualsiasi squilibrio potrebbe essere causato da discriminazione, quindi, non c’è nulla da celebrare.

La segregazione verticale è il fenomeno in base al quale la composizione delle posizioni/ruoli di vertice non è coerente a quella delle posizioni/ruoli di basso/medio livello, ossia alla base della “piramide” organizzativa c’è equilibrio di genere e al vertice c’è squilibrio oppure tra base e vertice della piramide c’è un differente disequilibrio di genere. In Italia, per porre rimedio alla segregazione verticale nei consigli di amministrazione, è stata varata nel 2011 la legge 120 detta «Golfo-Mosca». In base a questa legge le società quotate e pubbliche sono state obbligate a introdurre quote di genere a scaglioni. In base ad uno studio realizzato da Simonella e Cuomo dell’Osservatorio Diversità, Inclusione e Smart working di SDA Bocconi[2], l’effetto della legge è stato di migliorare l’equilibrio di genere da un punto di vista quantitativo.

 

L’aumento della presenza femminile nei consigli di amministrazione, però, non sembra aver funzionato da cinghia di trasmissione del tema della diversità e dell’inclusione tra consigli e organizzazione, ossia non si è osservata una maggiore promozione della parità di genere a tutti i livelli organizzativi. Il ruolo delle donne, come agenti del cambiamento, è stato sporadico e limitato per motivazioni di varia natura (necessità di legittimarsi, presa di distanza dal tema per evitare l’effetto stigma, autoesclusione, resistenze etc.). Gli uomini sono rimasti i guardiani dell’ordine simbolico di genere, le quote sono state viste più come un mezzo per migliorare la reputazione delle imprese che non uno strumento per incidere sostanzialmente sulla parità.

Questo risultato relativo al contesto italiano è coerente all’analisi proposta da Ely e Thomas su Harvard Business Review. I due autori americani hanno messo in evidenza che differenti studi non sono riusciti a dimostrare una relazione di causa ed effetto tra presenza delle donne nei consigli di amministrazione e prestazioni economico-finanziarie perché “le donne possono non essere differenti dai loro colleghi uomini nelle caratteristiche che influenzano le decisioni e anche se differiscono, la loro voce può essere resa marginale. Comunque, ciò che è più rilevante è che le decisioni del consiglio di amministrazione sono troppo lontane dalla bottom-line di un’impresa per poter esercitare un effetto diretto o incondizionato. […] l’aumento della diversità, di per sé, non aumenta l’efficacia; ciò che conta è come un’organizzazione gestisce la diversità e se è disposta a ridefinire la sua struttura di potere[3].”

Nel campo della diversità e dell’inclusione conta, quindi, come la diversità è agita: una leadership “femminile” può fare la differenza se diventa una leadership “al femminile” o, ancora meglio, “inclusiva”, ossia se porta qualcosa di differente e non si limita ad imitare quella “tradizionalmente” maschile.

 

A questo proposito uno degli aspetti più visibili di questo atteggiamento imitativo è la richiesta da parte di donne che occupano posizioni di potere di essere chiamate al maschile buttando all’aria, quindi, decenni di lavoro sul linguaggio non sessista ed inclusivo.

Un’altra tendenza presente in molte indagini sulla diffusione delle politiche di gestione della diversità è di focalizzare l’attenzione sull’adozione formale di queste pratiche tralasciando la loro reale implementazione e, quindi, la loro possibile efficacia. Il rischio di indagini di questo tipo è che l’adozione diventi retorica, meccanica e burocratizzata. Per esempio, riprendendo il caso delle quote e/o dei target, limitandosi a rilevare l’aumento della percentuale di donne in posizioni apicali. Quest’approccio lo troviamo anche nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) del governo italiano che ha modificato il Codice delle pari opportunità. Il piano ha esteso l’obbligo di redigere il rapporto biennale sulla situazione del personale alle imprese con 50 o più dipendenti, rendendo trasparente la composizione e la dinamica della forza lavoro per genere ed ha istituito la certificazione volontaria della parità di genere. I criteri per l’ottenimento di questa certificazione sono: la crescita di opportunità per le donne all’interno dell’impresa, l’uguaglianza delle remunerazioni a parità di lavoro, la presenza di politiche per la diversità di genere, la protezione della maternità.

Qui preme sottolineare come l’impostazione del PNRR sia ancora molto tradizionale perché incentrata sul genere, in particolare sulle donne e sulla maternità. Dimenticando altre categorie della diversità e, mancanza ancor più evidente, la paternità.

Se conseguita, la certificazione dà diritto ad alcuni vantaggi economici, ma presenta alcune problematiche. Le imprese, infatti, potrebbero essere più interessate a conseguire formalmente la certificazione che a occuparsi effettivamente della diversità e dell’inclusione, realizzando in questo modo il noto fenomeno del decoupling tra forma e sostanza, così ben studiato (in altri contesti e situazioni) dalla teoria neo-istituzionale. Un fenomeno che è importante evitare, perché l’inclusione non è un segno di spunta di una check-list, ma riguarda la vita vera dei lavoratori e delle lavoratrici. Tra l’altro, lavorare massicciamento sulla retorica può avere anche effetti controproducenti. Ad esempio, l’adozione di quote/target di genere o di iniziative di formazione a tappeto sui temi della diversità e dell’inclusione, magari decontestualizzate e basate solo su una letteratura anglocentrica, potrebbero generare nei lavoratori “stanchezza” finendo per non riconoscere più il tema come rilevante e/o minimizzandone la portata. Quando le aziende “si appropriano” del tema della diversità e dell’inclusione rischiano di “neutralizzarlo”, puntando a generare un cambiamento apparente. Per questa ragione è sempre importante non solo progettare una strategia ampia sul tema, ma avere sempre il polso della situazione sul clima che si respira in azienda: come stanno realmente le persone dentro le organizzazioni? Vengono volentieri al lavoro? Si sentono discriminate? Chi sono coloro che si sentono discriminati? Perché? Come viene definito il “merito”? Quali sono i meccanismi di inclusione ed esclusione nella mia organizzazione? Posso risolverli coinvolgendo anche i soggetti che si sentono discriminati? Il rischio da evitare è che si crei l’illusione (interna e/esterna) di essere un’azienda inclusiva solo perché si adottano alcune misure o si ricevano premi.

Abbiamo scritto più sopra che il PNRR si limita a parlare di maternità e trascura la genitorialità. Questo errore lo si trova spesso. È importante che tutti quanti, nel caso in cui si voglia rendere il mondo del lavoro più eguale ed inclusivo, abbandonino alcuni “totem”. Uno di questi è quello che tende a far coincidere il ruolo di donna con quello di madre e ad associare le attività di cura (dei figli e/o di altre persone) alla donna stessa.

A questo proposito, una recente decisione da parte di un tribunale italiano ci è utile per sottolineare questo aspetto. Premettiamo che nel trattare questo caso ci basiamo sulle informazioni rese disponibili sui media dai diretti interessati. Un’avvocata chiede al tribunale di rinviare un’udienza per legittimo impedimento perché doveva stare in ospedale con suo figlio. Il collegio del tribunale ha respinto la richiesta precisando che il bambino avrebbe potuto essere accompagnato in ospedale dal padre. Questa decisione è stata fortemente criticata dall’avvocata, dall’ordine degli avvocati e da tutti i media. In realtà, il collegio del tribunale, con la sua decisione ha iniziato a picconare il totem della maternità e ha portato al centro del discorso il concetto di genitorialità.

Nel caso delle famiglie eterosessuali, l’attività di cura non deve essere necessariamente di competenza della madre. Se non si esce da questa associazione automatica sarà molto difficile raggiungere una parità tra uomini e donne. In alcuni casi, le tutele e le protezioni destinate solo ad una categoria rafforzano l’esclusione. Al lavoro, bisogna iniziare a pensare che, uomini e donne, hanno le stesse necessità di bilanciamento tra lavoro e vita privata e nelle famiglie bisogna suddividersi tutte le attività che siano di lavoro, cura, svago, ecc.

Ovviamente in questo discorso c’entra molto il tema dei tempi di lavoro. Da questo punto di vista, la flessibilità spazio-temporale propria del lavoro agile e/o ibrido può essere una soluzione solo parziale, perché se risolve il problema dello spazio, non risolve quella del tempo, anzi può aggravare il potenziale conflitto. Una soluzione efficace potrebbe essere aumentare il numero di lavoratori, in modo tale da distribuire su più persone il carico di lavoro. La presenza di organici ridotti è fonte non solo del conflitto tra lavoro e vita privata per il singolo lavoratore, ma anche di conflitti tra lavoratori, perché se un lavoratore si assenta per questioni personali e/o famigliari, il suo lavoro ricade sulle spalle degli altri, aumentando il conflitto in capo ai propri colleghi. Pertanto il potenziale aumento dei concedi parentali (maternità/paternità) deve avvinire nell’ambito di un aumento degli organici. Da questo punto di vista anche lo strumento delle cosiddette “ferie solidali” così tanto pubblicizzate dai media, rappresenta un modo per “scaricare” l’onere dell’aiuto dall’impresa ai singoli lavoratori. Questi aspetti possono essere tra le cause dei fenomeni di stigmatizzazione delle persone che devono curare i propri famigliari (figli e/o genitori anziani e/ coniugi/compagni) e/o malate. Ci sono, però, professioni o occupazioni in cui il singolo lavoratore acquista un ruolo così critico e specifico, per conoscenza del contesto, che non è facile sostituirlo. Per queste occupazioni/professioni l’aumento del numero di persone disponibili può non essere una soluzione immediata. In questi casi, bisogna affiancare all’aumento di persone una logica di gruppo di lavoro che può rendere meno critica la presenza di una singola persona.

Come si vede, lavorare sui temi della diversità, dell’uguaglianza e dell’inclusione significa lavorare su tanti aspetti differenti, ossia, le mansioni, i ruoli, l’organizzazione del lavoro, i tempi e gli spazi del lavoro, i comportamenti (gli stili di leadership), gli atteggiamenti, il linguaggio, gli organici, la comunicazione (interna ed esterna), ecc. Non è semplice orchestrare tutti questi interventi. Quello che si osserva, ad oggi, in Italia è che poche imprese lavorano realmente per incamminarsi sul sentiero dell’inclusione, adottando ed implementando politiche e pratiche da un punto di vista sostanziale. Molte pattinano sulla superficie della retorica, rischiando, in alcuni casi, di scivolare.

[1] https://www.sdabocconi.it/it/faculty-ricerche/ricerca/new-value-knowledge-platform/corporate-governance-lab/osservatori/diversity-inclusion-smart-working

[2] Zenia Simonella & Simona Cuomo (2023), Gender equality at stake: women’s strategies, symbolic violence and resistance in Italian boards of directors, Journal of Gender Studies.

[3] Robin J. Ely & David A. Thomas (2020), Getting serious about diversity, Harvard Business Review, pp. 114-122.