Una cultura dell’integrità delle banche il vero focus della commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema bancario e finanziario
Nel febbraio di quest’anno si è insediata la nuova Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema bancario e finanziario.
Sentivamo davvero il bisogno di una nuova Commissione di inchiesta? La risposta non è scontata.
Dopo la crisi finanziaria che ha colpito in modo violento nello scorso decennio le economie occidentali, molti paesi hanno istituito, sull’impulso dei propri parlamenti, commissioni di inchiesta sulle banche e sull’intermediazione finanziaria, con esiti molto diversi.
La più nota è forse la Commissione nazionale d’inchiesta sulle cause della crisi economica e finanziaria negli Stati Uniti, che ha operato per circa 18 mesi a partire dalla primavera del 2009. Essa ha concluso che la crisi era evitabile ed è stata il risultato di azioni e inerzie umane, non di eventi esterni ineluttabili o di modelli quantitativi/informatici «impazziti».
I protagonisti della finanza e i controllori hanno ignorato ogni possibile avvertimento e hanno mancato nell’integrarsi, nel rispondere, nel gestire i rischi. Certamente ci sono state gravi discontinuità nell’accountability e nell’etica delle organizzazioni.
Questa Commissione ha raggiunto i propri obiettivi? Io credo di no.
E’ proseguita infatti negli Stati Uniti la tendenza alla crescita delle grandissime banche, a suo tempo considerate tra le cause principali della crisi, che sono oggi ancora più “grandi” di 10 anni fa. Queste banche hanno un potere di mercato obiettivamente molto alto e possono provocare, in caso di comportamenti non corretti, danni devastanti alla clientela ed alla reputazione del sistema bancario nel suo complesso.
E’ stato questo ad esempio il caso della Wells Fargo, implicata in un gigantesco caso di apertura indebita di una pluralità di conti agli stessi clienti (celebre il serrato interrogatorio al CEO della banca da parte della senatrice Warren, con centinaia di migliaia di visualizzazioni su You-Tube).
C’è inoltre il rischio che banche così potenti possano influenzare i propri supervisori, come dimostra il caso della Fed di New York, accusata dalla propria dipendente Carmen Segarra, con il supporto di decine di ore di registrazioni audio, di aver avuto comportamenti accondiscendenti nei confronti di Goldman Sachs.
Tutto ciò è avvenuto nonostante le 545 pagine del Rapporto finale, comprensive di due relazioni di minoranza di alcuni membri della Commissione.
Nel Regno Unito è stata istituita nel 2013 una commissione parlamentare di inchiesta sulle norme e pratiche professionali nel settore bancario, a seguito anche dello scandalo di manipolazione del tasso LIBOR.
Il rapporto finale della Commissione, intitolato “Changing banking for good” contiene una serie di raccomandazioni volte a migliorare le norme ed i comportamenti dei banchieri e degli organi di controllo, nella direzione di una maggiore responsabilizzazione di entrambi.
In conseguenza di ciò, le principali banche e società finanziarie operanti nel Regno Unito hanno dato vita ad un’iniziativa comune di natura privata, lo “Standard Banking Board”, che propone, ed impegna i propri membri ad adottare, standard di comportamento adeguati, per ristabilire la fiducia del pubblico nel sistema bancario e finanziario inglese.
Come recitava Johnny Dorelli in un noto Carosello di parecchi decenni fa, riferendosi a una nota azienda alimentare, “la fiducia è una cosa seria e si dà alle cose serie”.
Le banche hanno goduto per centinaia di anni della fiducia del pubblico ma oggi sono ben lontane dai primi posti delle classifiche internazionali sulla reputazione e credibilità di settori e imprese.
Esse sono al centro del dibattito sul loro contributo allo sviluppo economico, sulle responsabilità specifiche nella crisi economica – connesse a una regolamentazione inadeguata, a eventi esterni non controllabili e spesso imprevedibili, ma anche ad azioni sbagliate – sugli effetti provocati sul benessere di Stati, istituzioni, imprese, famiglie, sulla perdita, forse non irrimediabile ma certo spaventosa, di credibilità e reputazione che ne è conseguita.
C’è una novità importante, di cui si discute da tempo in ambito scientifico e che è stata colta in effetti anche dal nuovo “Standard Banking Board” inglese, e cioè che capitale e rispetto formale delle regole da soli non bastano, anzi paradossalmente potrebbero essere controproducenti, perché rischiano di creare aspettative di «buona banca», poi non necessariamente soddisfatte.
Certo una banca ben capitalizzata e formalmente in regola con la normativa è rassicurante, ma per polverizzare il capitale a volte basta poco (magari anche solo un cambiamento nei principi contabili) e i comportamenti agiti possono essere ben diversi da quelli dichiarati. Oltre a capitale e compliance, serve nelle banche una cultura, principalmente dei rischi e delle relazioni con la clientela, integra e ben diffusa, che orienti la condotta aziendale e i comportamenti organizzativi e delle persone. I costi di una cultura delle banche inadeguata sono altissimi e vanno ben oltre i fabbisogni di nuovo capitale spesso messi in evidenza dai rilievi europei.
L’ipotesi delle «mele marce», pochi individui nelle banche che con comportamenti scorretti rischiano di contaminare tutta l’azienda, non mi convince.
La reputo una posizione pericolosa, che può generare alibi tali da rendere il fenomeno ancora più preoccupante. Sovente i comportamenti non compliant non scaturiscono da un’inadeguata integrità a livello personale o dalla «naturale» propensione individuale ad azioni non compliant, ma dall’influenza di fattori esogeni, ambientali e aziendali, che alterano una corretta conversione dei valori individuali in atteggiamenti e azioni.
Come è noto, nel caso di Jerome Kerviel, il trader della Société Générale a cui si deve una perdita stimata in 5 miliardi di dollari, vi è stata l’assenza di un supervisore diretto per gran parte del periodo nel quale egli ha operato; il nuovo supervisore, poi nominato, non aveva alcuna esperienza sull’attività svolta da Kerviel; prima che fosse scoperto, i comportamenti del trader hanno provoca-o segnali di alert nei sistemi di controllo della banca 75 volte, senza che nessuno intervenisse.
Le persone in genere sanno cosa è giusto o sbagliato ma spesso nelle organizzazioni si creano condizioni connesse al funzionamento di gruppi (groupthinking), alla distorsione di meccanismi operativi (incentivi), al frazionamento delle responsabilità («non dipende certo da me»…), che rendono quasi impossibile all’individuo (o certamente molto difficile) prendere decisioni considerando alternative a certi comportamenti che si rivelano lontani da standard di integrità.
L’integrità è come un muscolo, va allenata. Le persone vanno accompagnate e aiutate: ci vogliono supporti organizzativi e istituzionali. L’onere della motivazione a un comportamento integro deve spostarsi dall’individuo all’organizzazione. E’ la cultura aziendale che può svolgere un ruolo importante nel consolidamento di comportamenti compliant nelle istituzioni finanziarie. Una cultura aziendale ben governata e orientata alla compliance tiene insieme l’azienda, specie laddove la normativa è improntata a principi di carattere generale e la flessibilità dell’organizzazione comporta un’elevata destrutturazione dei compiti delle persone. In questo contesto è la cultura che indica la «via maestra».
I comportamenti compliant non costituiscono un obiettivo fine a se stesso, «distante», per contenuto, modalità e tempi di realizzazione e revisione, dagli obiettivi di business, ma concorrono alla stabilizzazione, su un orizzonte temporale non breve, del valore aziendale complessivo, attraverso il contributo alla reputazione della banca e alla fiducia del pubblico.
Risulta fondamentale assicurare un bilanciamento a livello personale e organizzativo tra i benefici e i costi della compliance, diffondendo la convinzione che aderire alla compliance significa avere vantaggi e soddisfazioni più che evitare danni e punizioni. Compliance non deve evocare solo disciplina ma anche e soprattutto orientamento a valori positivi individuali, che devono risultare allineati a quelli dell’impresa bancaria.
Per ristabilire la fiducia nelle banche occorre quindi cambiare la cultura bancaria in modo da promuovere comportamenti organizzativi ed individuali adeguati e indirizzati all’integrità.
La nuova commissione di inchiesta sulle banche, che per il momento si è prevalentemente concentrata, per ragioni peraltro più che comprensibili, sui comportamenti e sulle reazioni delle banche e del sistema finanziario in occasione della crisi da Covid-19, può essere quindi un’occasione importante di rilancio delle banche nel nostro paese purché sia rivolta a ricostituire e rafforzare la fiducia del pubblico, che è già stata messa a dura prova dalle note vicende, guardando avanti, piuttosto che ritornando su ciò è successo, come ha fatto la Commissione operante nella trascorsa legislatura, senza conseguire risultati di rilievo. I lavori della nuova Commissione possono essere per le banche di stimolo all’adozione di comportamenti corretti. Certo potrà essere opportuno proporre alcune nuove norme, ma sarebbe già importante rendere operativo ciò che già esiste. Si pensi alle nuove norme europee sul fit&proper degli amministratori delle banche, che da noi non hanno ancora trovato attuazione (è stato diffuso in questi giorni il parere del Consiglio di Stato).
La finanza è essenziale per il funzionamento dell’economia reale e resta uno strumento delle “forze del bene”. Essa può davvero salvare il mondo. Ma chi può salvare la finanza? Può farlo una commissione di inchiesta in grado di promuovere e diffondere una nuova cultura bancaria, che le banche da sole faticano ad adottare, rafforzando così l’integrità del sistema e la fiducia del pubblico. Di una commissione così si sente un gran bisogno.